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Piccolo Siera e Navastolt

Pubblicato da picsdimai in aprile 7, 2021
Pubblicato in: Scialpinismo. 1 Commento

Come bambini alla ricerca di figurine, senza possibilità di scambio di doppie ! … Non ricordo stagioni scialpinistiche così piene di scialpinisti in giro, forse è proprio vero che è una disciplina in aumento nei suoi fruitori. Di spazio ce n’è per tutti, basta solamente saperlo cercare lasciando stare le doppie; anche il concetto di “classiche” ha subìto radicali cambiamenti, il livello medio si è alzato e i percorsi che un tempo erano selettivi sono oggi appannaggio di una folta cerchia.

Fa parte del periodo storico che stiamo vivendo, tutto viaggia subito ad alta velocità, aumento esponenziale, non esiste più l’avanzamento per gradi, traguardi da conquistarsi con calma in previsione di miglioramenti futuri, ma tutto e subito !! … Basta discorsi da vecchio, concentriamoci sulle figurine che mi mancano !

“Questo è l’anno del Siera, Grande o Piccolo che sia !”

Siamo al Passo Siera dopo essere saliti dalla Val Pesarina; lasciamo a sinistra le poche tracce di sci che proseguono verso il Cadìn delle Vette Nere, piegando decisamente verso est in direzione del canalone che scende dalla Forca alta di Siera.

Il primo tratto si svolge nei pressi del budello roccioso-detritico contornato da mughi, poco dopo si apre tutto d’un colpo un magnifico vallone scosceso, solcato da canali superficiali, che in alto converge ai piedi dell’ultimo canalino, nascosto da una quinta rocciosa, che termina sulla Forca.

All’inizio del canalino, verso destra si stacca una prima ampia cengia spiovente e leggermente obliqua, che conduce sulla spalla del Piccolo Siera.  

Sci in spalla, ramponi e piccozza, inizialmente fatichiamo per lo sprofondamento di quasi tutta la gamba, più avanti le cose migliorano, fino alla completa portanza nei pressi della spalla, che verso l’alto scavalchiamo entrando nel successivo canale.

Il percorso tende leggermente verso destra, nei pressi del canale che volge alla soprastante cresta a ridosso del risalto sommitale che appare all’ultimo, dopo l’illusione di cima alla vista della cresta.

L’ultimo baluardo

Seguiamo la cresta verso sinistra, aggiriamo il primo risalto roccioso sulla destra, salendo uno stretto canalino che ci porta sulla crestina che precede la cima.

Alla monotonia della salita nel periodo estivo riportata sulle guide, si contrappone un giudizio estremamente positivo sull’aspetto invernale; a nostro avviso infatti, i millecinquecento metri di dislivello garantiscono tutto quello che si può chiedere ad un percorso scialpinistico.

E dire che la giornata era partita nel peggiore dei modi, visto che mentre percorrevamo in auto la Val Pesarina ci era quasi venuto in mente di cambiare rotta, in considerazione del devastante effetto provocato dai primi aumenti delle temperature.

Lo sgocciolamento copioso dai drenaggi dei muri di contenimento della strada e all’interno delle gallerie, con acqua spruzzata a pressione evidenzia chiaramente un effetto di disgelo violento e repentino.

Perseveriamo tentando l’azzardo e mentre scendiamo dall’auto notiamo altre persone in partenza che non sembrano lamentarsi della copertura nevosa, presente fin dal primo passo dopo la strada.

Iniziamo la discesa dalla cima, lungo l’esile ed esposta crestina, poche curve ben assestate lungo la stretta fascia obliqua che delimita un salto roccioso a sinistra e il filo di cresta a destra; poco dopo giunge propizio uno stretto canalino che ci riporta sulla cresta apice del pendio alto.

Seguiamo uno dei vari canalini superficiali su firn che per essere ottimo avrebbe dovuto prendere ancora un po’ di sole, cosa che ormai sembra difficile considerate le nuvole che si stanno addensando.

Adoro le linee sciistiche che cambiano continuamente carattere, ora pieghiamo verso destra sotto rocce rotte, in direzione del crinale, che scavalchiamo velocemente arrivando all’inizio della cengia.

Panorami verso il gruppo del Clap

La cengia e sospesa sulle pareti sottostanti, ma per ovvi motivi scivola via molto più velocemente di quanto lo sia stato durante la salita; qualche curva e siamo nell’ampio vallone sotto la Forcella alta del Siera e la cosa si fa oltremodo interessante sotto l’aspetto sciistico.

Visto che adoro le linee che cambiano continuamente carattere, come posso non apprezzare un tratto ampio, un po’ mosso, con pendenze costanti e firn strepitoso ? … Si va di curvoni ad alta velocità, accompagnati da un sorriso più accecante della neve.

Verso il basso sfruttiamo un canale parallelo a quello di salita, con una breve strozzatura in alto, che ci deposita a valle rispetto a Passo Siera. Ancora qualche curva lungo la strada fino a sbattere le punte sull’asfalto … che bella giornata !!

Piccolo Siera (2.430 m) – versante sud-ovest: OSA (qualche tratto vicino ai 45°); Dislivello: 1.500 metri; itinerario poco frequentato, ma assolutamente remunerativo sotto l’aspetto scialpinistico e ambientale;

27 febbraio 2021. 

Quale figurina attacchiamo oggi sul nostro album ? … In mente ne abbiamo parecchie a disposizione, ma con l’innevamento di quest’anno è forse il caso di dare priorità a quelle che si concedono raramente.

E’ per quello che aspettavamo una stagione come questa, per poterla percorrere solamente alle nostre condizioni, salire da un versante per poi scendere dall’altro; le attraversate sono quello che di più si può chiedere alle attività in montagna.

“Il suo toponimo significa “pascolo cattivo” (Nava-stolt) … a noi è parso di pascolare egregiamente !!”.

La “Stretta di Fleons” è il primo varco della giornata; ci inoltriamo nel vallone, sbarrato a sinistra dalle aggettanti pareti dell’Avastolt, che di fatto è una minuscola appendice della lunga catena che inizia alle Sorgenti del Piave e termine sulla Stretta; da sotto non pare così minuscolo.

E’ ora di iniziare ad aggirare l’appendice e salire a nord dove troviamo ancora neve farinosa senza tracce di passaggio, mirando al secondo varco della giornata, costituito da Forcella del Torrione di Fleons posta a destra dell’omonima torre, a circa 2.110 metri di quota.

Troviamo riparo dal vento sul versante opposto della forcella, in una rientranza rocciosa della torre, tanto per consentirci un posto adeguato al cambio d’assetto; è ora infatti di scendere per un centinaio di metri con picca e ramponi fino a raggiungere il catino sospeso che verso l’alto culmina sulla forcella del Buso (2.250 m).

La forcella rappresenta il terzo varco della giornata, uno stretto intaglio fra la Torre Avoltri e la Torre est della Cràssigne dal Cramâr, che permette di avere accesso al versante meridionale della catena, in vista dell’imponente versante est della Cima della Miniera.

Verso forcella del Buso

Altra breve discesa lungo il canalino, inizialmente stretto e un po’ martoriato dalle scariche, fino alla base delle pareti sud della Torre Avoltri, che contorniamo verso est fino alla base della cresta ovest del Navastolt.

Il vento ha creato una fascia di circa tre metri verticali a cingere la cima, diciamo che anche il resto del pendio non scherza; sulla cima sorge il classico dilemma su quale sia il modo più sicuro per scendere tratti critici come questo.

 

L’ultimo salto

Solitamente vince lo sci, sul quale ci si sente più a proprio agio, oppure è solamente una questione dipendente dal minor tempo di durata della paura; nonostante questo decidiamo di tenere gli sci sullo zaino e ripercorrere a ritroso le peste di salita.

Ora però ci aspetta il secondo tratto pendente, fra l’altro disseminato dalle così dette “Bocche di Balena”, che non ci impediscono di scendere sciando evitandole con brevi traversi.

L’ultima strettoia ci consegna al sottostante pendio di firn magnifico che ci coinvolge totalmente fino al bosco delle casere Avanza, forse anche un po’ troppo in basso.

Chiudiamo l’anello rientrando a Pierabech lungo la strada forestale ancora percorribile con gli sci.

Navastolt (2.321 m) – versante ovest e sud: OSA (per la cima, due tratti, vicini ai 50°); il resto: BSA; Dislivello: 1.500 metri; itinerario grandioso con frequentazione quasi nulla, l’intera attraversata da nord a sud, che richiede buona preparazione alpinistica e fisica, permette di staccarsi completamente dai circuiti classici, immergendosi in ambiente suggestivo e selvaggio, potendo anche scegliere di evitare la salita alla cima che richiede ottime capacità alpinistiche e scialpinistiche.

10 marzo 2021.           

Siera, canali e creste …

Pubblicato da picsdimai in marzo 21, 2021
Pubblicato in: Alpinismo. Lascia un commento

Arrivo a cinquant’anni suonati senza essere stato sul Siera; cosa inspiegabile tenuto conto della sua importanza, ma soprattutto della sua imponenza, visto che da Sappada appare come un colosso piramidale capace di richiamare l’attenzione anche dell’occhio più distratto.

Il punto più vicino alla sua cima su cui ho posato piede è la Forca alta di Siera, raggiunta dal canalone nord e dal quale poi siamo scesi con gli sci, ma si tratta comunque di storia abbastanza recente.

Le due vie di accesso più agevoli sono i canaloni sud e sud-ovest e si svolgono sul versante opposto rispetto alla conca di Sappada; entrambe le relazioni non rasserenano assolutamente sulle caratteristiche dei percorsi.

Si tratta di due canaloni piuttosto angusti e poco remunerativi, dove la friabilità della roccia ed il detrito danno il loro meglio.

Decidiamo di rispettare l’ordine riportato sulla guida “Alpi Carniche 2”, quindi di salire lungo il canalone sud e scendere dal canalone sud-ovest; sinceramente non saprei quale dei due consigliare, visto che non evidenziano particolari peculiarità degne di un minimo nota.

Forse il modo migliore è appunto quello di percorrerli entrambi, uno in salita e l’altro in discesa, considerando che nei passaggi più impegnativi ci sono delle soste per l’assicurazione, è utile quindi portarsi uno spezzone di corda da 20-30 metri. 

Una cosa è certa, la cima è veramente un bel posto e si gode di una panoramicità eccezionale; sporgendosi sul versante settentrionale si ha l’impressione di trovarsi sulla perpendicolare del tetto dell’omonimo rifugio.

Il terzo percorso di salita relazionato sulla stessa guida è la cresta ovest, dove sembra che la qualità della roccia riemerga ben oltre i limiti di tollerabilità, si parla addirittura di roccia solida.

Ogni tanto mi chiedo come mi vengano in mente certe idee, lo leggo anche sul volto di Ivan mentre si difende dall’attacco dei mughi, piuttosto determinati a respingere il nostro avanzamento; sdrammatizzare in questi casi aiuta e cosa sarebbe poi una salita senza un minimo di lotta con il mugo ?

Mughi già finiti ? … una parvenza di sentierino obliquo (Rupicapra trail) ci porta in direzione del circo detritico-erboso posto alla base del canalone ovest, in direzione di un evidente diedro riportato anche sulla relazione. Troppo facile per essere vero, ma per ogni buon conto decidiamo di attaccare forti delle conferme che ci arrivano dalla lettura.

In questi casi si cerca di trovare un ben che minimo segno di civiltà, tanto da capire a quando risalga l’ultimo accesso al luogo; sicuramente nel 1993 nell’occasione dell’apertura della via “Lucciole d’argento” che sembra iniziare poco distante dal punto in cui ci troviamo.

Il prossimo obiettivo è quello di rinvenire l’unico chiodo lasciato infisso nel 1982 dai primi salitori sul tratto chiave della salita, che dovremmo trovare quasi subito a darci conferma definitiva sull’andamento del percorso.

Non ci perdiamo d’animo nonostante le vane ricerche del chiodo; è anche vero che quella fase è durata ben poco, convinti comunque di essere sulla retta via ed incoraggiati dalla solidità della roccia.

parete nord ovest

Ora il prossimo obiettivo è l’ometto, sulla relazione indicato all’uscita in cresta, finora è coinciso tutto, dal muretto iniziale, alla cengia verso destra, al canale obliquo che in alto si trasforma in camino scorbutico. 

Se siamo fuori via significa che si tratta di un clone ! … Nessun clone, ecco l’ometto che prontamente ricomponiamo … siamo sulla cresta !

I percorsi di cresta mi hanno sempre affascinato, contornare quei profili che fanno da confine con il cielo, un disegno tridimensionale a grandezza naturale, quel senso di esposizione ad ampio raggio, cosa c’è di meglio ?

Capiamo subito che qui c’è da divertirsi, visto che l’arrampicata si svolge prevalentemente su roccia molto buona e su difficoltà da affrontare con disinvoltura, tanto che verrebbe voglia di slegarsi e seguire l’andamento sinuoso scegliendo i passaggi che ispirano più fantasia.

Non c’è un percorso obbligato, sebbene non ci si possa discostare di molto dal filo di cresta, comunque diamo spazio alla fantasia e all’intuito, in buona parte trasportato dalla logicità. 

Lungo la cresta ovest

La relazione torna nello zaino, mentre i tiri di corda si susseguono velocemente lungo la costola rocciosa che sta immediatamente a sinistra del canalone sud ovest; il divertimento continua, intervallato da qualche discesa su terreno detritico fra un risalto e l’altro.

Verso l’alto la cresta interseca il canalone e dopo un breve tratto in comune riprende diretta verso la cima; ci sleghiamo sfogando la libertà nelle ultime centinaia di metri della cresta, ci sporgiamo a picco su Sappada dopo oltre quattro ore di arrampicata per uno sviluppo di oltre mille metri.

Dopo questa ampia parentesi di roccia ottima, riportiamo il selettore su canale detritico e scendiamo lungo il canalone sud ovest, tenendo a vista il profilo della cresta soprastante.

Settembre 2020.

Monte Siera (2.443 m) – per la cresta ovest (Duccio e Toni Peratoner, 26 agosto 1982)

Dislivello: 500 metri, Sviluppo: 1.065 m;

Difficoltà: III e IV, un pass. di V-;

Horn allo Jalovec

Pubblicato da picsdimai in ottobre 4, 2020
Pubblicato in: Alpinismo. Lascia un commento

Nelle varie classificazioni di tipologie di alpinisti si sente spesso parlare di “Alpinisti della domenica”; la via Horn alla parete est-nord-est dello Jalovec, non rientra sicuramente nell’elenco delle vie consigliate a quella categoria di alpinisti.

Per fortuna mi ritengo un “Alpinista del mercoledì”, per vari motivi, non per ultimo il fatto che vada in montagna molto spesso in giornate infrasettimanali; quindi decido di programmare una uscita su questa via storica delle Alpi Giulie slovene.

Non nego che la prima intenzione era quella di andarci da solo, come fece Ferdinand Horn il primo agosto del 1909, ma per fortuna, Josef accetta il mio invito e ci andiamo assieme.

La giornata è fresca e le previsioni meteo non sono proprio azzeccate; rimpiangiamo i tempi in cui si arrivava al Tamar in macchina e anche gustare la birra a fine giornata, sapendo di aver il mezzo a due passi, è tutto un altro bere.

Il sentiero diventa presto un ghiaione segnato da varie tracce dirette, più che altro di discesa, rendendo particolarmente faticoso l’avvicinamento alla parete, che sembra più che altro una proiezione su uno sfondo indefinito.

Nonostante il freddo siamo entrambe sudati marci, ma con le mani sull’attacco, quasi a garantire il raggiungimento della parete ed evitare suoi eventuali allontanamenti.

No ! … Le previsioni meteo proprio non c’hanno azzeccato: il cielo è grigio e le cime più alte indossano un cappello grigio a coprire il loro capo.

Conveniamo che in caso di scarsa visibilità è più facile perdersi sulle vie facili che su quelle difficili, anche perchè i pochi punti di riferimento che già dal basso dovrebbero indirizzarci, non sono più visibili.

Questi punti sono dati dalla Kegljiṥče (la grande cengia detritica), dalla piccola e dalla grande caverna, dal camino Horn e dall’arco naturale, quest’ultimi due non distinguibili dal basso.

Al momento, appena sopra alla grande cengia detritica non c’è visibilità, ma comunque decidiamo di andare a vedere, nella speranza di qualche apertura, forte del fatto che fino alla Kegljiṥče ci sono già stato un po’ di anni fa, quando salii la via Comici allo spigolo nord-est.

Ammetto che i ricordi non sono rimasti proprio così freschi e l’orientamento non è apparso proprio così familiare; di fatto raggiungiamo il cengione dopo quattro tiri di corda e le nuvole non si sono assolutamente spostate dalle ghiaie che sorreggono il resto della parete.

Avanziamo per un centinaio di metri in obliquo verso destra, mirando ad un qualcosa che potrebbe rappresentare la parete a balze inframezzata da cenge oblique verso sinistra.

Qualcosa ci dice che ci sono altri frequentatori della parete; qualcuno martella sopra le nostre teste, probabilmente su un percorso diretto fra la Horn e lo spigolo; oltre a martellare scarica sassi, mentre noi valutiamo la possibilità di ritirarci, viste le difficoltà di orientamento.

Non è il posto più tranquillo per prendere questo tipo di decisione, una paretina leggermente concava è il misero riparo dalle scariche che frequentemente interrompono i nostri calcoli.

Un modo per uscire dalla traiettoria è quello di imboccare le cengette oblique che portano verso sinistra e che dovrebbero consentire di raggiungere un evidente camino, che avremmo dovuto scorgere già da sotto.

Una volta raggiunto il camino prendiamo coraggio e dopo un passaggio faticoso giungiamo nei pressi della piccola caverna, alla base della rampa obliqua, immersi nelle nuvole.

Dove la bella rampa liscia si trasforma in diedro, aggiriamo uno spigolo e per mezzo di una cengia arriviamo all’interno di un canale detritico alla base della grande caverna, mentre qualche raggio cerca di trovare spazio fra le nuvole e sembra anche potercela fare.

Cerchiamo il “camino Horn”, ma avanti a noi c’è solamente un evidente diedro segnato da una fila di chiodi, i primi due collegati da un cordino blu penzolante.

Quel diedro è il “camino Horn” !

Camino “Horn”

Non c’è dubbio che si debba passare da lì, ma a vista le difficoltà non sono quelle dichiarate dalla relazione che abbiamo con noi; oltre alla “Busca” abbiamo uno schizzo piuttosto stringato, che effettivamente in quel tratto riporta la dicitura “A0”.

Più volte fin qui ho pensato come sarebbe potuta andare la salita in solitaria e mentre affronto il “camino Horn” mi rendo conto della bellezza di avere sotto qualcuno che mi assicura.

I primi metri non mi sembrano adatti a provare movimenti e sequenze, senza esitazioni accetto l’agevolazione blu penzolante ed in breve entro nel diedro; è pacifico che questo primo tratto abbia subito delle modifiche dal 1909 ad oggi, evidenziato da un’ampia chiazza giallastra, segno inequivocabile di distacco roccioso.

Il pezzo sopra è sicuramente originale e anche piuttosto tecnico ed indirizza ad un successivo strapiombo repulsivo che si evita per mezzo di una cengia esposta verso destra, rientrando in alto nella direttiva del diedro.

Segue un canale detritico che si insinua verso destra, dove improvvisamente appare il magnifico arco naturale dove ci viene incontro un fascio di luce che indirizza verso l’uscita dalla parete; una enorme porta di uscita che Horn avrà scoperto solamente in quel momento, la ciliegina sulla torta di un percorso di una logicità disarmante, che permette il superamento della parete con difficoltà medio-basse, cosa che da sotto appare piuttosto improbabile.

L’arco naturale

Si esce sul tetto dello Jalovec, un piano inclinato a balze che faticosamente, su basse difficoltà, si segue cercando i punti più vulnerabili fino a raggiungere la cima.

Quando salii la Kugy-Horn allo Jôf di Montasio, pensai alla genialità ed alla capacità di Horn nel risolvere da solo il collegamento che Kugy cercava fra le cenge del Walhalla e la Grande Cengia; ora non posso che avere la conferma di quanto forte fosse questo alpinista solitario dei primi anni del 1900.

Note: per la parte est-nord-est (via Horn);

(Ferdinand Horn 1 agosto 1909)

Dislivello: 400 m;

Difficoltà: III, IV, pass. IV+, un tratto di A0;

Covid e Libertà

Pubblicato da picsdimai in aprile 29, 2020
Pubblicato in: A pochi passi. 2 commenti

Oggi è il turno di Alpi Carniche volume I, le sto passando in rassegna tutte, anche se la più gettonata rimane la vecchia “Busca”, datata 1973.

E’ sempre stata mia consuetudine leggerle e rileggerle, in cerca di nuove idee per la stagione in arrivo; il mio alpinismo è anche questo, fase di studio e ricerca, anche solo per sognare, ma soprattutto per passare all’azione e mettere in pratica.

Il ciclo intero ha l’apice nella fase pratica e quindi nella realizzazione di quanto prefissato e non si può dire che si concluda con l’arrivo a valle o il rientro a casa; ogni “uscita” ha una sua storia, un suo valore, una sua identità e in base a questi elementi lascia uno strascico a suo modo indelebile, che con il tempo si ripropone sotto forma di ricordo, come riaprire uno scrigno.

Eccomi puntuale, fin da subito a soffermarmi già sulle prime pagine, sul gruppo del Volaia, su tutte Capolago e Canale con le loro pareti settentrionali; ogni anno le foto che le ritraggono catturano la mia attenzione e portano il mio interesse ad approfondire l’argomento sui percorsi tracciati, così logici e spiccatamente alpinistici, è ormai un automatismo involontario.

Nella fase successiva solitamente arriva la randellata; la lettura delle relazioni infatti oscura buona parte di quello che evidenziano le fotografie, un po’ come la storia della carota e del bastone.

Fra le righe, ma anche nelle righe, si percepisce un volto quantomai ingannevole, una torta dal bell’aspetto, non altrettanto corrisposto da profumo e sapore ! … Le difficoltà di IV e V e magari anche il passaggio di A1, che sono assolutamente accettabili su un’arrampicata classica, nel corpo delle relazioni, assumono assolutamente altri toni, con descrizioni non particolarmente rasserenanti.

Campanelli d’allarme risuonano alle frasi “… friabile e con appigli spioventi …”, “… lisci strapiombi …”, “… sottile cornice si traversa a sinistra (molto difficile) …”, “ … buco ghiacciato …”, “ … superare con forte difficoltà gli strapiombi … “, per poi raggiungere l’apice sulla parete est del Biegenkopf Nord, sulla via Castiglioni – Soravito – Zancristoforo del 1938, dove si menziona il superamento di uno strapiombo liscio di V+, come passaggio più difficile e verso la fine spunti una piramide umana per oltrepassare una strozzatura strapiombante.

A guarnire tutto questo, è praticamente certo che la friabilità della roccia sia una delle prerogative principali delle pareti.

A differenza degli anni scorsi, oggi mi sono soffermato molto più tempo su queste relazioni, cercando la soluzione a questi rebus non supportati da ulteriori bibliografie; neanche sui siti austriaci appaiono cenni su questi percorsi ormai storici, lasciando invece ampio spazio alle nuove salite “mozze” di carattere sportivo.

Stavolta è diverso da tutte le altre volte, stavolta il tempo per dedicarsi alla fase di studio è dominante rispetto a tutto il resto, l’emergenza Covid-19 ha stravolto la mondanità, ha modificato radicalmente lo svolgimento delle giornate; la fase d’azione è venuta meno e si è costretti a confrontarsi solamente con la progettazione di idee future ed il ricordo di attività passate.

Spesso si vive di ricordi, si riapre frequentemente lo scrigno nell’attesa che la cosa si ristabilisca verso la normalità, verso la completezza dell’alpinismo, ma non solo, anche della vita.

L’egoismo tipico dell’alpinista lo porta a mettere in primo piano le sue esigenze, i suoi diritti; la libertà deve essere garantita, non si può limitare o addirittura soffocare l’azione del frequentatore della montagna, simbolo della libertà.

Luoghi dove in tutte le stagioni era possibile dare sfogo alla propria fantasia, vuoi sulla neve con il proprio percorso e la propria traccia, ma anche nel resto dell’anno spaziando dall’arrampicata, all’esplorazione, all’escursionismo di tutti i tipi.

Territori in questo momento riconquistati dalla natura, che percepisce evidente l’assenza umana e quindi l’assenza di minaccia, dando sfogo alla naturale voglia di riprendersi gli spazi.

La reclusione forzata in ognuno di noi provoca le più svariate conseguenze; rassegnazione, speranza, ribellione.

Sapere che il male comune è pur sempre un mezzo gaudio allevia parzialmente la sofferenza e qualcuno richiama a gran voce il rispetto del diritto della libertà, sancito dall’articolo 13 della Costituzione, non si può paragonare l’andar per monti alle camminate lungo le pubbliche vie o nei parchi pubblici.

Con tutti gli spazi che ci sono in montagna è impossibile non essere in grado di garantire il rispetto delle distanze fra le persone; in ettari ed ettari di estensione alpestre, cosa sarà mai stare distanti un metro uno dall’altro ?

E’ anche vero che l’interpretazione umana delle regole è spesso molto soggettiva e sovente plasmata a proprio piacimento, soprattutto ove concede diversificazioni e concessioni particolari; allo stesso tempo risulta difficile legiferare precisamente in materia, soprattutto in un periodo di emergenza come questo.

In ogni caso qualcuno sarà scontento e probabilmente il mal comune rimane la soluzione migliore, considerando l’insorgere di problemi oltremodo gravosi, situazioni lavorative a rischio, attività scolastiche interrotte, conseguenze psicologiche derivanti dalla mancanza di associatività.

E’ risaputo che l’attività fisica è indispensabile, i più fortunati possono beneficiare di un lembo verde nei pressi della propria abitazione, mentre altri si devono accontentare delle attività indoor del proprio appartamento.

Dal raggio di azione di 200 metri, recentemente siamo passati a 500 metri; ci è parsa una riconquista, cercando subito sulle cartine topografiche, quali potessero essere le peculiarità specifiche incluse nell’area consentita.

La stessa differenza che passa fra una via d’arrampicata di 200 metri e una di 500: la prima è di solito risolvibile in quattro o cinque tiri ed è quindi considerata quasi di allenamento, mentre la seconda ha già i presupposti di un “Viòne”, con tutto quello che ne consegue in ordine di tempi di percorrenza e di impegno.

Ora pare che ci siano degli spiragli sull’apertura in ambito regionale; e chi vuole uscire dal Friuli Venezia Giulia ? Qui c’è tutto, dovesse essere così potremmo circolare liberamente a petto gonfio, sempre nel rispetto delle precauzioni dettate, avendo a disposizione mare, pianura, collina e montagna.

Quando poi si ritornerà alla normalità completa, torneremo alla nostra frenesia quotidiana; le giornate lunghe di adesso, piene di valorizzazione della poca area calpestabile, torneranno ad accorciarsi e a correre via veloci, mettendo in secondo piano i gradini che portano all’orto o i vecchi muri a secco, in questi periodi indispensabili per il potenziamento di gambe e braccia.

Beh … direi ben venga la normalità, ma mi piacerebbe che non si dimenticassero i lembi verdi, i gradini del giardino e i vecchi muri a secco che in questo momento particolare ci hanno permesso di faticare e tenerci in allenamento e liberare la testa dai cattivi pensieri (“fare di necessità virtù”).

24 aprile 2020

La “Giovanna” d’inverno

Pubblicato da picsdimai in aprile 10, 2020
Pubblicato in: Alpinismo. Lascia un commento

Nell’epoca in cui tutto è a portata di mano, dove basta schiacciare un tasto e si possono reperire notizie di qualsiasi genere e da qualsiasi parte del mondo, ci sono ancora possibilità di “risolverla alla vecchia”, con il rischio di sbatterci il muso dall’inizio alla fine.

Quest’anno le condizioni invernali hanno spalancato le porte agli spiccozzatori, che si sono riversati in massa sui percorsi classici della regione; si sono addirittura rispolverati dei percorsi che da decenni soffrivano di letargia in attesa di rientrare in forma.

In ogni caso qualcuno si è dovuto sacrificare e, dopo averli sbinocolati, affronta l’avvicinamento e ci mette le picche sopra; da lì in poi le voci si diramano velocemente attirando gli interessati al genere, forti delle notizie confortanti messe a disposizione.

Inizia la corsa all’effimero prima della nevicata che potrebbe sconvolgere le condizioni e chissà quando si ripresenterà un occasione simile; i percorsi vengono ricalcati quasi quotidianamente, alcuni offrono chiari segni sulle sequenze di progressione, non serve nemmeno battere picche e ramponi, è sufficiente un minimo di mira e chiaramente tecniche di progressione ed assicurazione.

Chissà se ci sarà neve là dentro, non so nemmeno se sia mai stata salita d’inverno e nemmeno se sia adatta ad essere salita in quella stagione; fino a pochi anni fa era sconosciuta anche nella stagione calda poi, dopo averla percorsa per curiosità d’estate, ho fornito la relazione a Saverio ed Emiliano che l’hanno introdotta nella nuova guida di “Alpi Carniche”.

E’ soprattutto un mistero che solamente nel 1974 qualcuno ci abbia messo piede per la prima volta, considerando che non molto distante e su difficoltà maggiori ci sono altri percorsi alpinistici più vecchi di quasi quarant’anni.

Josef è salito sul Sernio recentemente e magari avrà dato un occhiata alla parete nord-est, visto che è già da un po’ di tempo che gli parlo di questa possibilità, ma effettivamente la via normale calca tutt’altre esposizioni e dal Foràn de la Gjalìne si intuisce appena l’andamento del colatoio.

Non resta che andare a vedere, al massimo valuteremo un ripiego sullo spigolo nord-ovest.

Sul Foràn de la Gjalìne si chiude il sipario al pubblico e si comincia a percepire un certo senso di isolamento, anche se nemmeno prima c’era poi questa gran folla.

Prima di Casera del Mestri ci innalziamo sui pendii sottostanti le pareti, in direzione dell’ampia insellatura dove nasce lo spigolo nord-ovest.

Siamo alla base del colatoio; è in questi momenti che ai dubbi che avevamo se ne aggiungono di altri: nel primo tratto sembra esserci neve a sufficienza, ma sarà abbastanza consistente ? … e sopra ce ne sarà abbastanza, visto che da qui non si riesce ad intuire ? … adesso non ci vengono in mente altri modi per darci delle risposte se non quello di andare a vedere, non avremo mica portato fin qui tutto questo materiale senza dargli la possibilità di rendersi utile ?

I ramponi sono ai piedi già da un pezzo, escono dallo zaino: picche, imbraco, casco, corde, chiodi, martello, friend, viti da ghiaccio, rinvii, fettucce e anche qualche spezzone da lasciare eventualmente.

I primi cento metri li saliamo slegati, viste le pendenze non ancora marcate (55°) e troviamo un terrazzino nevoso a ridosso delle pareti di destra, ove c’è la possibilità di legarsi comodamente ed allestire una sosta a chiodi; entrambe siamo curiosi di andare a vedere come stanno le cose in alto.

Sulla rampa prima del traverso a sinistra

All’uscita del canalino di margine sinistro

Per evitare una fascia non invitante, andiamo in obliquo verso il margine sinistro della rampa e su per un canalino ripido fino a pochi metri dalla sua fine, in corrispondenza di un accenno di cengia che avevamo percorso anche in estate, che verso destra riporta sulla prosecuzione della rampa.

Cengetta di rientro nel canale

Il percorso prosegue lungo una sequenza di tiri su di una stretta fascia di neve dura con brevi tratti pendenti fino ad 80°, con qualche possibilità di posizionare protezioni veloci; verso l’alto la stretta fascia nevosa muore all’interno di una strettoia di roccia liscia verticale, costringendoci a piegare verso sinistra in direzione di un crinale di neve non molto consistente in vista della cresta sommitale.

La stretta fascia nevosa sul fondo del canale

Su quel tipo di neve, a differenza di quella che abbiamo trovato sotto, la sosta a due picche non è proprio il massimo della vita e gli ultimi 60 metri, il pendio continuo intorno ai 60° senza possibilità di protezioni, ci tiene entrambe con il cuore in mano.

La cresta segna l’ultima piccola insidia da superare, per fortuna sul versante opposto la neve ritorna dura e consistente e quasi in tranquillità raggiungiamo la vetta, mentre una leggera foschia si alza dal fondovalle.

Sono le tre del pomeriggio e sulle surreali foschie si scontra il sole dando vita al famosissimo spettro di Brocken che proprio sul culmine della montagna accoglie il nostro arrivo.

Lasciamo la cima del Sernio, conosciuta anche come la montagna delle donne visto che le prime a raggiungere la vetta furono due ragazze di Tolmezzo (Minetta e Annina Grassi il 21 agosto 1879) ed anche nella combriccola del 1923 sullo spigolo nord ovest era presente una buona parte di quote rosa.

Per il colatoio Nord-est (via Giovanna)

(Virgilio Burba, Franco Quagliaro, Rodolfo Sinuello, 25 agosto 1974);

Dislivello: 400 m; Difficoltà: IV/WI3/M3.

I misteri della Grauzaria

Pubblicato da picsdimai in aprile 10, 2020
Pubblicato in: Alpinismo. 2 commenti

Ci sono dei posti dove la voglia di andarci nasce praticamente involontaria; in montagna di solito la forma, l’imponenza, la logicità, l’eleganza e l’arditezza attirano l’attenzione innescando il meccanismo che porta al “un giorno, io lì ci devo andare …”.

Se a tutti questi aggettivi aggiungiamo il “mistero”, ci sono tutti gli ingredienti per rendere il tutto ancora più attraente, tanto da diventare un tarlo che inesorabile lavora nella mente.

La Medace ha rappresentato per me l’inizio dell’arrampicata in montagna, il superamento del confine stabilito dal secondo grado superiore della scala Welzenbach e l’ingresso nell’alpinismo “vero”, con la progressione da capo cordata. Perchè è vero, fino al II+ si può andare slegati, mentre dal III- in poi è quasi scontato l’utilizzo della corda con tutte le tecniche di assicurazione.

Quella salita lungo i 100 metri della via normale, con difficoltà di II e passaggi di III- aveva visto ben poche tecniche di assicurazione; essendo autodidatta, gli unici materiali di assicurazione in mio possesso erano la corda e alcuni rinvii che fin lì avevo usato solo in palestra.

Cosa che le due ragazze che erano con me, fresche di corso di alpinismo al Rifugio De Gasperi, non avevano mancato di puntualizzare, tanto da prendere lo spunto per il regalo del mio compleanno: un chiodo ! … il mio primo chiodo !

Non ricordo se quel giorno misi gli occhi sullo spigolo della Medace, forse ero più impegnato a parare i colpi verbali delle due ragazze, forti della loro maggioranza numerica, ma credo che pochi anni dopo la notai sulla guida “Alpi Carniche vol. I”.

Quello che però nella guida viene descritto come un piccolo gioiello di arrampicata, da voci di corridoio risultava un gioiello danneggiato da una importante frana che aveva interessato la parte centrale dello spigolo.

Le voci di corridoio narravano di qualche salita successiva al franamento, con difficoltà ben superiori, parecchie incertezze e misteri sulla variante obbligatoria da seguire.

Non fu così facile trovare interessati a ficcare il naso nel mistero e quando chiesi info al “Jòt”, pensando che lui potesse essere uno di quelli che ci era stato, vidi un sorriso che mi fece capire che era interessato alla salita. Nemmeno lui c’era mai stato e mi disse di andarci assieme; mi sentii in una botte di ferro !

Primo tiro

Lo spigolo si fa subito verticale, ma l’ottima qualità della roccia e qualche chiodo di passaggio, garantiscono un buon divertimento. Avvicinandoci alla frana seguiamo una rampa che porta verso sinistra rispetto allo spigolo, ma per non stravolgere l’originalità della linea, è necessario rientrare verso destra. Il traverso avviene sulle rocce bianco-giallastre che hanno fatto da scivolo all’enorme blocco roccioso che si è staccato; in tutto una quindicina di metri di attraversata con le pulsazioni in gola ed un silenzio spettrale, sembra ancora di sentire l’odore di zolfo che solitamente segue la caduta di un sasso, nel nulla si ode il canto del picchio muraiolo e le ghiaie smosse da due camosci.

Il traverso della frana

Egoisticamente non lasciamo nemmeno un chiodo dei tre usati per assicurarci nella traversata, ci pensiamo solo ora che siamo in sosta sullo spigolo, ma nessuno dei due ha intenzione di tornare indietro a rimetterne almeno uno.

Ora la via ritorna molto divertente e su roccia ottima fino alla esile cima della torre; dopo molti anni rivedo la via normale, stavolta in discesa e con molti più aggeggi di assicurazioni sull’imbraco.

Medace (1586 m): per lo spigolo Nord-est (D. Feruglio – G. Piccolo 27 luglio 1939);

Dislivello: 150 m; diff.: IV, V;

10 maggio 2018

Salendo il canalone del Portonàt è impossibile non rimanere colpiti dallo spigolo nord-ovest della Grauzaria; si tratta di una struttura perfetta e particolarmente attraente, una prua prominente che si insinua massiccia nel canalone.

La prua

Cominciai a documentarmi parecchi anni fa, ma anche qui sembrava che le cose scritte sulla guida “Alpi Carniche vol. I”, fossero nel tempo mutate misteriosamente, in peggio chiaramente.

Nessuna notizia di salite recenti, solo voci del solito corridoio, avvalorate dalle notizie che già sapevo, sulla morte di una cordata intera, composta da tre alpinisti precipitati dallo spigolo il 23 luglio 1967, a cui a uno dei tre venne dedicata la lama che ardita si stacca dalla cresta est del Monte Sernio, dal 5 ottobre 1969 chiamata Torre Ivano.

Il tarlo era ormai insediato e ogni anno riemergeva insistente per poi rientrare nei propri ranghi nel momento in cui dovevo trovare qualcuno che venisse con me.

Dalla Cima dei Gjai lo spigolo appare ancora più affascinante e misterioso, con la prima parte verticale a sostegno della cresta di arditi torrioni che si collega alla cima principale; anche quest’anno non ci andrò ! … dovrò definitivamente cestinare il progetto …

Anche dalla Sfinge lo spigolo manda il suo messaggio e mentre scendiamo dalla sua via normale, provo a sondare l’interesse di Josef.

Da buon autoctono si sente obbligato a prendere in considerazione la cosa e nemmeno Giorgio boccia l’idea; che lo spigolo abbia catturato anche loro ? … oppure è un assenso dato dal momento di rilassamento in discesa dalla Sfinge ? … tanto lo so già che finirà di nuovo nel cassetto !

Si aggiunge anche Ivan e siamo addirittura in quattro, due cordate, i giorni scorsi Josef ha portato addirittura materiale al Rifugio Grauzaria, sembra quasi un assedio.

Nessun assedio, una normale salita alpinistica, il mistero svanisce con il nostro cauto avanzare lungo la linea logica che abbina la qualità della roccia ai punti deboli dello spigolo.

Parte centrale

Verso l’uscita

La roccia è quella tipica da controllare ancora una volta dopo l’ultima, mentre i punti deboli dello spigolo sono ben evidenti e dati da fessure e diedri che tortuosi permettono la salita su difficoltà accettabili. Rimaniamo meravigliati dalla quantità di chiodi … ma se non ci veniva nessuno qui ? … La bellezza nell’arrampicata non è il pezzo forte di questa via, in ogni caso continuerà a mantenere il suo fascino e la sua imponenza; in alto conosciamo un angolo di Grauzaria mai visto, un catino detritico sospeso con arditi torrioni, sul quale in silenzio chiudiamo la porta dopo il nostro passaggio, ricalpestando terreni più abituati al passaggio umano. La cresta sommitale ci porta in vetta alla Grauzaria dove, mi par di capire, ognuno di noi quattro, spesso mette volentieri piede.

Creta Grauzaria (2065 m): per lo spigolo e la cresta Nord-Ovest (D. Feruglio, G. Piccolo 19 luglio 1936);

Dislivello: 400 m; diff.: III, IV, pass di IV+;

11 giugno 2019

Jôf di Montasio – via Clapadòrie

Pubblicato da picsdimai in settembre 18, 2018
Pubblicato in: Alpinismo. 1 Commento

………

Quale deviata passione può portarti a salire una via battezzata Clapadòrie, che parte da una valle che si chiama Rotta ?

………

L’avvicinamento all’attacco della via è già sufficiente per segnare la prima tacca sulla scala della faticata giornaliera; un percorso “scomodo” per la ripida risalita nell’umido bosco e l’infinito traverso obliquo sopra il Rio di Montasio, la gradinata a balze rocciose che precede il bivacco Muschi completa l’opera. Posto ideale per riprendere fiato e studiare l’approccio alla rampa della Clapadòrie, il bivacco non è nient’altro che una caverna con un muretto a secco, e un qualcosa di morbido all’interno di un sacco nero che potrebbe fungere da materasso; in compenso c’è una sorgente d’acqua, un lampioncino con candela per illuminazione romantica e il libro di bivacco. Concordiamo di lasciare la corda nello zaino fino al raggiungimento delle prime difficoltà, non localizzate sulla relazione della “Busca” in nostro possesso. Sulla destra stacchiamo i piedi dalle pertinenze del bivacco e ci innalziamo verso l’anfiteatro che precede la rampa, luoghi oggetto delle mie accurate osservazioni dalla valle, nell’ammirare il miglior versante del Montasio. Sopra alle nostre teste la mistica “Parete Rossa“, teatro di arditi tentativi di salita e tutt’ora in attesa di primi salitori. Verrebbe voglia di fermarsi su questo prato, puntino verde che trova vita fra queste vertiginose pareti ovest, ma dobbiamo procedere calpestando le orme ancora visibili di chi un mese e mezzo fa è salito sul margine destro della “Parete Rossa“, lungo un tutt’altro che invitante diedro solcato da una fessura che oggi gronda colate d’acqua. Siamo sotto la verticale del bivacco Suringar, 300 metri più in basso; ricordo che, quando mio fratello mi disse che voleva passare la notte al Suringar, gli dissi di fare attenzione nell’andare in bagno prima di coricarsi, perché un eventuale distrazione lo avrebbe scaraventato direttamente sulla Clapadòrie. Attraversiamo cauti e circospetti, viste le incombenze soprastanti, la popolazione animale e gli umani occasionali potrebbero essere una grave insidia per il nostro transito. La “Parete Rossa” offre tutta la sua repulsività, le due fessure strapiombanti che la incidono su questo lato, terminano su cenge che non fanno altro che incrementare il grado di inclinazione dei gialli rocciosi.

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In front of red face

Dalla Val Dogna la prospettiva inganna: la rampa è piuttosto ampia; si tratta di un triangolo con base nell’anfiteatro e vertice, circa 250 metri più in alto, a ridosso di un pilastro giallo-grigio. A circa due terzi della rampa, una cengia segna l’inizio del cambio di qualità di roccia e di inclinazione; quest’ultima inversamente proporzionale alla solidità della pietra, la friabilità infatti aumenta di pari passo con la presenza di ciuffi d’erba, aggrappati alla vita contro ogni principio di gravità. Due tiri di corda ci portano su di un terrazzino ove troviamo il primo segno di vita dopo le impronte alla base della “Parete Rossa“: un ometto ed un vecchio cordino sbiadito, a conferma della correttezza del percorso. Il vago schizzo della “Busca” e un ragionamento logico ci portano in piena parete, attraversiamo in esposizione totale un esile cengia con un passo in spaccata, seguito a breve distanza da un brivido lungo la schiena, che ci permette di evitare il tratto friabilissimo del vertice della rampa.

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L’espostissima cengetta verso gli ultimi tiri

Si evita il tratto friabilissimo, ma c’è anche di peggio: un tiro quasi verticale, in obliquo verso destra, contrassegnato da una linea verde di ciuffi d’erba e terra, circondata da rocce giallastre dal suono sordo e dal classico aspetto del traditore, dove fidarsi della tenuta dei ciuffi è la cosa migliore da fare; la classica arrampicata da terra sotto le unghie. Il momento di paura perdura fino alla base del camino, che verso l’alto ripropone una linea verde di ciuffi d’erba, ma nella prima parte concede il beneficio di un chiodo arrugginito che è assolutamente a tema con lo stile della salita, a differenza di quello ancora luccicante che lasciamo infisso sulla cengia esposta.

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La linea verde verso il camino finale

Il camino si revela meglio del previsto, dando la possibilità di scelta fra roccia ottima e linea erbosa … scegliamo la prima, tanto per togliere la terra da sotto le unghie. Stavolta il verde in uscita è un altro di quei prati su cui si vorrebbe fermarsi a guardare in giro e gustare il panorama; siamo alla base della “Grande Cengia“, non molto più in alto transita  il sentiero che attraversa completamente il versante occidentale dello Jof di Montasio.

Eccoci di nuovo a sudare in salita verso il Foràn da la Grave, dopo essere scesi dalla ferrata Amalia, lungo la Spalla e la parete nord e toccato l’ultimo dei tre bivacchi di oggi; valichiamo il Foràn e siamo di nuovo in Val Dogna, in tempo per prendere visione dal basso del tracciato percorso.

NOTE: Parete ovest – via Wittine-Basilisco o della Clapadòrie (B. Basilisco e R. Wittine il 16 giugno 1929) – Dislivello: 400 m; Sviluppo: 600 m circa; Difficoltà: III con pass. di IV.

Percorso storico che richiede ottimo allenamento fisico e capacità di movimentazione in ambente insidioso, isolato e con frequentazione praticamente nulla. Sul tracciato ci sono solo 2 chiodi. Astenersi schizzinosi.

16 settembre 2018.

Scialpinismo di periferia

Pubblicato da picsdimai in febbraio 1, 2018
Pubblicato in: Scialpinismo. 1 Commento

Ecco, a pochi giorni di distanza, un altra discesa con gli sci da una cima degna di essere catalogata fra le meritevoli, sebbene situata in zona di periferia rispetto ad un mondo scialpinistico come quello del Canin e del Montasio nelle Alpi Giulie.

Nonostante questo sia costellato da svariate possibilità di scelta, anche per i palati più sopraffini, con esposizioni, dislivelli, panoramicità e difficoltà di tutti i tipi, c’è chi cerca la complicazione logistica per trovare non si sa cosa; un po’ come la decentralizzazione demografica delle grandi città.

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La cresta del Sart

Il peggio deve ancora venire !

Constatato che, a giudizio personale, ne valeva la pena, è il caso o meno di rendere la cosa pubblica?

I social network come le voci di bar veicolano in modo incontrollato il flusso delle notizie, ottenendo spesso un effetto indesiderato.

Il dilemma è: esternare o appropriarsi avidamente del tesoro appena riportato alla luce?

Se si esterna, dare notizie precise o rimanere sul vago?

Inasprire le qualità oppure togliere testa e coda per arrivare il più vicino possibile al plaisir?

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Sguardo verso il Canin

In tutti i casi si rischia di subire critiche o comunque giudizi, sia dagli eventuali successivi fruitori del percorso, ma soprattutto da chi, seduto sul divano, sorseggiando un bicchiere, in qualche maniera prende visione del “prodotto”.

L’unica via di scampo è il riserbo totale; diversamente si è in pasto agli squali.

Non va sempre così male, esistono anche riscontri positivi naturalmente, però bisogna pur sempre tener conto che il canale d’uscita delle notizie, per la maggior parte delle volte è sconosciuto, come del resto l’utenza che lo consulta.

La soggettività delle notizie è bilaterale.

I due percorsi sono simili nelle caratteristiche; sono infatti entrambe delle cime, delle cime secondarie rispetto ai massicci principali delle due catene a cui appartengono.

Secondarie sicuramente per altezza, ma soprattutto per collocazione decentrata rispetto agli accessi classici; forcella Bila Peç e Rio Montasio rappresentano le soglie di confine fra centro e periferia.

Si percepisce questo distacco già scendendo il canale ovest di forcella Bila Peç (2.005 m), che permette di immergersi profondamente nel vastissimo altipiano del Foràn dal Mùs, mentre il Rio Montasio segna di fatto la fine degli alpeggi dell’altipiano del Montasio.

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Il pendio sommitale del Cimone

Segue una divergenza fra i due percorsi: il Foràn dal Mùs d’inverno è una sorta di ghiacciaio disseminato da voragini, non costituite da crepacci bensì da forre carsiche tipiche della zona, mentre ad ovest dell’altipiano del Montasio ci si inoltra in un bosco inizialmente fitto, in seguito scosceso e rado, recentemente devastato da un incendio.

Il raggiungimento delle rispettive creste, in ambo i casi prevede un tratto tecnico che necessita di ramponi e piccozza; molto simili fra loro, le creste appaiono affilate e con cornici sul versante settentrionale, mentre a meridione offrono un vasto pendio nevoso intervallato da balze rocciose evitabili per cenge ben marcate.

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Curva verso La Viene

Le cime risultano distanti dai massicci principali, ma allo stesso tempo vicine da concedere scorci interessanti sui loro vertiginosi versanti e sulle circostanti catene montuose.

La discesa con gli sci è accomunata dall’esposizione prevalentemente meridionale su ampi pendii costanti nell’inclinazione, in ambiente superlativo.

I rientri a valle non possono che risultare lunghi e complessi, maggior parte delle volte con gli sci in spalla, ma questo è il prezzo da pagare per lo scialpinismo di periferia.

NOTE:

Monte Sart (2.324 m): da Sella Nevea (1.100 m) eventualmente salendo con gli impianti fino al Rif. Gilberti (1.850 m); Discesa dal versante sud fino a Coritis (564 m) Val Resia;

Dislivello salita: 1.400 m da Sella Nevea; 600 m dal Rifugio Gilberti;

Dislivello discesa: 1.760 m.

Difficoltà: BSA (brevi tratti vicini ai 40°);

Attrezzatura: Ramponi e Piccozza;

In discesa prestare attenzione all’orientamento per raccordarsi al sentiero estivo n. 634 facendo attenzione ai salti di roccia sottostanti il pendio principale.

Monte Cimone (2.379 m): da Sella Nevea (1.100 m): Discesa dal versante sud-est con possibilità di scendere dal canalone principale, oppure dalla spalla sud-est di Forca de la Viene;

Dislivello: 1.400 m;

Difficoltà: OSA (brevi tratti vicini ai 45°)

Attrezzatura: Ramponi e Piccozza (tratto attrezzato di salita alla spalla di Forca de la Viene 50°);

Scendendo completamente l’ampio pendio sottostante la cima, si accede al canalone principale, mentre per raggiungere la spalla di Forca de la Viene è necessario attraversare in quota.

24 e 30 gennaio 2018.

Cima Cantoni – spigolo sud

Pubblicato da picsdimai in giugno 11, 2017
Pubblicato in: Alpinismo. Lascia un commento

Era là che aspettava da un po’ di tempo di essere presa in mano da qualcuno; la relazione di questo percorso alpinistico mi era stata data da Giacomo alcuni anni fa, con il sincero consiglio di salirla.

Il primo segnale sul carattere della salita di oggi lo riceviamo già nella faggeta iniziale, al bivio per il bivacco Greselin, ove la segnaletica indica la dismissione del sentiero, che successivamente manifesta inequivocabilmente i segni di una frequentazione piuttosto scarna.

Il sentiero supera la Costa dei Tass senza tanti indugi, puntando il mirino sull’obiettivo ed unendo i due punti lungo la massima pendenza; poco prima del bivacco, a quota 1.400 metri, lasciamo il sentiero per scendere sul greto (ciol), risalendolo fino alla base di una evidente colata nera che scende dallo spigolo (quota 1.500 m).

La cengia inizialmente marcata ed erbosa, successivamente più esile e rocciosa, ci porta verso sinistra in direzione della cascata d’acqua e di seguito, verso destra, all’interno di un marcato canale che percorriamo fino ad una spalla con mughi.

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Caratteristiche creste frastagliate

Sul prossimo muretto roccioso, verticale ed esposto, è meglio legarsi visto che si tratta del vertice della colata nera e, come ogni colata degna di chiamarsi tale, gronda di acqua, soprattutto se la sera precedente è piovuto. Siamo di nuovo in un canale salendolo per circa 200 metri fino ad una selletta con mughi dove lo spigolo diviene concreto.

La qualità della roccia è molto buona sebbene sia necessaria una attenta valutazione di appigli ed appoggi; procediamo slegati, visto che ci eravamo prefissati di farlo il più possibile per ridurre i tempi di salita e per questo abbiamo portato al seguito una corda da 30 metri e poca attrezzatura.

Saliamo lo spigolo tenendoci leggermente sulla destra su roccia ottima e con tratti intervallati dai mughi, fino a raggiungere una spalla detrtitica.

Il tracciato prosegue lungo lo spigolo raggiungendo un antro erboso ai piedi di un tetto che sbarra la strada, ma consente l’uscita verso destra lungo una comoda cengia erbosa, per poi portarsi di nuovo verso sinistra e raggiungere la cresta con mughi.

Placche lisce e solide ci consentono di salire fino alla base di un evidente camino posto a circa 2.000 metri di quota; superiamo il camino che presenta roccia ottima e delle strozzature, uscendo sulla sua prosecuzione più agevole.

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In front of Duranno

Giunge anche un momento di tensione visto che un metro cubo di roccia decide di staccarsi dalla sua sede natìa e rumoreggiare lungo la sottostante vallata; ce la caviamo con una ferita al braccio, mentre poco dopo attraversiamo verso sinistra una cornice di roccia solida che ci porta verso la parte terminale della salita. La roccia permane di buona qualità e dopo aver superato una svasatura, siamo alla base di una fascia intervallata da strapiombi, il primo dei quali da superare direttamente, i sucessivi da evitare in obliquo con passaggi divertenti; è il momento di mettere da parte la relazione ed affidarsi all’istino alpinistico.

Dopo due tiri di corda da 30 m proseguiamo di nuovo slegati su rocce più facili fino a raggiungere il cengione sommitale dell’anticima, sovrastato dall’ultimo risalto solcato da tre camini paralleli.

Saliamo l’ampio camino più a destra, appena aldilà del filo dello spigolo, su roccia sempre buona ed un ultimo tratto umido; dopo un centinaio di metri posiamo piede sull’anticima della Cima Cantoni a quota 2.470 metri.

La cima dei Preti sembra lontanissima, mentre il Duranno mostra la sua imponenza e verticalità manifestandosi alla stregua del ben più famoso Pelmo.

Molto suggestiva la cresta affilata che verso nord ovest consente di scendere alla sottostante forcella a ridosso della Cima Cantoni, della quale ne rasentiamo le pareti sud della cuspide per raggiungere la forcella Compòl. Scendiamo quindi direttamente lungo il canalone sottostante, seguendo un sentiero tanto per cambiare dismesso che ci porta verso Costa dei Tass e quindi a valle.

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Insellature di cresta

Note: Anticima sud di Cima Cantoni (2.470 m) – per lo spigolo Sud-sud-ovest (Altamura-Gilic 18 luglio 1976) – Dislivello: 970 m; Difficoltà: I, II con tratti di III e due passaggi di IV-.

Itinerario di stampo esplorativo che presenta difficoltà tecniche contenute, ma che richiede impegno fisico e mentale, visto l’elevato dislivello e la continua esposizione su terreni poco frequentati, dove il percorso va cercato e studiato per trovare i passaggi più logici ed agevoli.

Roccia in gran parte di buona qualità, ma con qualche tratto da valutare attentamente; nonostante l’esposizione favorevole, l’ambiente rimane comunque severo, dove difficilmente si incontrerà esseri umani per quasi l’intero arco della giornata. Grande panoramicità e scorci sulle ardite creste che caratterizzano questa zona montana ingiustamente poco valorizzata.

3 giugno 2017.

L’attraversata delle cime Castrein

Pubblicato da picsdimai in gennaio 6, 2017
Pubblicato in: Alpinismo. 1 Commento

Neve o non neve, la strada per Grant Agâr è sempre una rottura ! … Con gli scarponi pesanti poi figuriamoci ! … Una volta arrivati fuori dal bosco però la musica cambia e ritornano gli entusiasmi ancora soffocati soprattutto dall’ultimo pezzo di strada cementato.

Andiamo verso Lavinal dell’Orso immersi nell’umidità di un denso strato di nubi che cinge le quote comprese fra i 1400 e i 1600 metri, ma il colore vivace in alto ci fa capire che presto saremo al sole.

Una volta fuoriusciti dalle brume, ci si presenta altro clima ed altro paesaggio, manca solo la neve, quella bisogna andarsela a cercare necessariamente in versanti diversi da quelli meridionali.

Attraversiamo alla base la “parete delle Gocce” ed imbocchiamo il vallone che conduce a forcella Mosè, dove aggiungiamo l’elemento finora mancante. La neve, sebbene in scarsa quantità, risulta molto consistente e continua; mentre calziamo i ramponi scrutiamo le condizioni del versante nord-est, segnato al centro da un evidente solco, stretto in basso, aperto a metà parete e di nuovo chiuso prima dell’uscita in cresta.

A destra un canale più aperto che permette di evitare il primo tratto del solco, allo stato attuale non molto in forma sotto l’aspetto delle condizioni. Senza pensarci tanto, siamo subito alla base del canale di destra, che sembra dare una doppia possibilità: salita diretta con superamento di un muretto verticale di ghiaccio, oppure uscita in obliquo a sinistra fino alla dorsale.

Saliamo diritti verso il muretto, nei pressi di una strozzatura del canale; si tratta di una cascatina ghiacciata dall’altezza di circa 8 metri. Stavolta la corda è presa veramente in considerazione e dopo un primo tratto verticale su ghiaccio vitreo, la pendenza spancia leggermente ed il ghiaccio lascia spazio alla neve; quindici metri in tutto e siamo fuori dall’insidia. Riprendiamo la prosecuzione del canale superando più agevolmente altre due strettoie fino al cengiòne con un breve tratto di ferrata che fuoriesce dalla neve. Pieghiamo decisamente a sinistra, attraversando la fascia bianca orizzontale, saliamo in obliquo fino a raggiungere il crinale di margine destro del solco.

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Piccolo risalto ghiacciato del canale

Vi accediamo comodamente, visto che in questo tratto risulta aperto ed in buonissime condizioni; le pendenze incrementano durante la salita fino a sbucare sulla cresta soprastante.

La lunga cresta allineata nord-est/sud-ovest presenta in successione tre rilievi rocciosi, quello centrale identificato da una croce costruita con del filo spinato, rappresenta la cima principale (2502 m); accesso e rientro in cresta avvengono dal versante nord-est su tratti rocciosi, cenge e canali innevati.

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Canale parte alta

La cresta prosegue verso sud-ovest ed i pendii esposti a sud manifestano fin da subito l’insidia della fusione dello strato superficiale; è proprio su quel pendio che dobbiamo attraversare, un pendio sospeso sulla sottostante fascia di pareti che verso est forma la “parete delle Gocce”. Gli stambecchi si rincorrono come bambini nel cortile di casa, noi zoppichiamo per adattarci all’asimmetria posturale conseguente al terreno.

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In prossimità della cima

Un ultimo tratto con poca neve ed erba ghiacciata ci porta nei pressi di forcella Lavinal dell’Orso (2138 m), all’ombra della cima de La Puartàte; il freddo catino innevato ci porta a prati più tiepidi e a foschie diradate. Anche al rientro, la strada di Grant Agâr non smentisce la sua fama.

Note: Bella attraversata dell’intera cresta delle Cime Castrein, la linea di salita da noi seguita non segue il percorso estivo, che si tiene piuttosto vicino al crinale, ma sfrutta più che altro la serie di canali diretti che salgono verso la cresta. Le difficoltà variano a seconda dell’innevamento, che in questo caso risultava appena sufficiente, sebbene di buona consistenza strutturale, lasciando però fuori dei brevi salti verticali. Pendenze continue intorno ai 50° con tratti superiori. Anche la discesa richiede attenzione essendo continuamente in obliquo su pendii marcati. Da valutare le condizioni di innevamento. Percorso raramente frequentato nei periodi invernali.

16 dicembre 2016.

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